...Addio del passato...

Raccoglie speciali testimonianze  sullo straordinario film omonimo girato  da Marco Bellocchio in omaggio alla tradizione lirica e al radicamento di Giuseppe Verdi nella musica e nel belcanto piacentini.

La prima idea di produrre un film su Verdi in rapporto a Piacenza nacque a Teatro nel febbraio 2000, guardando da lontano la ricorrenza del centenario della morte di Giuseppe Verdi; il regista ottimale era stato da subito individuato in Marco Bellocchio, anche per iniziativa dell’Assessore alla Cultura Massimo Trespidi.

In verità all’inizio si intendeva rappresentare un Verdi particolarmente piacentino sulla scorta delle risultanze delle ricerche archivistiche della studiosa americana Mary Jane Phillips Matz - ormai definitivamente accreditata nella storiografia verdiana - per cui gli antenati paterni Verdi, nonché la famiglia materna Uttini, avevano abitato per più di due secoli rispettivamente a S. Agata e Bersano e a Saliceto di Cadeo, in terra piacentina. Il tema si poneva quindi come una questione pruriginosa, anticonformista rispetto alla tradizionale visione di un Verdi bussetano e parmense, diventava un affare di stato. Inoltre il tema era difficilmente rappresentabile, perché occorrevano masse, costumi, riadattamenti, propri di una fiction complessa e molto impegnativa su tutti i piani.

Il regista preferì invece cercare cose quasi ancestrali tra la gente, nei luoghi piacentini, convinto di ritrovare i motivi antichi della musica e del melodramma verdiano. Nel carteggio intrattenuto tra Piacenza e Roma cominciava a troneggiare il tema della trilogia (Rigoletto, Trovatore, Traviata), anche perché era nata proprio nella tranquilla campagna tra Busseto e Villanova d’Arda, ritrovata da Verdi con una carica introspettiva e innovativa eccezionale pur dopo le delusioni del 1849 e l’abbandono di Milano.

Il progetto però si andava concentrando su Traviata, l’opera maggiormente conosciuta e amata anche da queste parti; si trattava di pensare a luoghi da trasformare in modo possibilmente indolore in set cinematografici. Bellocchio si era già accordato con il produttore per girare tutto in digitale, per avere la massima definizione  e il minimo ingombro delle attrezzature e dell’équipe tecnica.

Soprattutto nelle settimane precedenti alle riprese, Marco Bellocchio chiedeva continuamente vecchie fotografie e vecchi documentari su Piacenza, gruppi musicali popolari che suonavano Verdi con la fisarmonica e il flauto a becco, dischi di Labò, grande e spettacolare artista e grande viveur, e Poggi, di cui l’aveva particolarmente colpito la generosità, l’altruismo e la fulgida e intensa carriera. Soprattutto cercava il luogo dove gli era stato detto si ritrovavano cantanti e coristi, che davano sfogo alle loro passioni liriche. Si andò da Vittorio a Centovera, a Viustino, a S. Giorgio, ma in tutti quei luoghi i ritrovi non si tenevano più da anni.

Finalmente la buona notizia: il posto braccato era la “Cooperativa Infrangibile”, dove i coristi si incontravano e cantavano solitamente ogni  giovedì mattina; anche i locali erano adeguati con tutte quelle foto in bianco e nero di Poggi, Labò, Coppi e dei partigiani,  e con il pianoforte sempre aperto.

Insieme ai sopralluoghi per l’individuazione delle locations (palazzi antichi, Piazza Cavalli, strade del centro), si concentravano al ridotto del Teatro gli incontri con cantanti, studiosi, musicisti, comparse, tecnici piacentini. Soprattutto i cantanti Marco li voleva vedere personalmente,  parlare con loro e sentirli cantare, chiedendo giudizi e consigli sul grado di qualità vocale di ognuno. Per lui Verdi non era una novità, perché aveva inserito un pezzo della Forza del destino ne I pugni in tasca.

E mentre si stavano riunendo le vecchie gloriose voci piacentine, spuntò, dietro segnalazione del maestro del coro compartecipe alle indagini, una quindicenne con doti vocali molto sorprendenti; la sua comparsa ispirò il regista, che inserì nella vicenda del film la storia sommessa e incipiente di questa giovanissima, facendola apparire come  l’anello di congiunzione con la rimpianta grandiosa tradizione piacentina: quindi da una parte la Ratti, Torregiani, Zucca e i coristi, dall’altra le giovani Violette e gli Alfredi, tutti a cantare arie della Traviata, sul fondo la vicenda di Eleonora, che canta a memoria.

 Dopo tanti preparativi, finalmente si giunse al titolo del film, che era rimasto nel vago (Verdi e Piacenza, Traviata a Piacenza?)  e che doveva contenere lo spirito del film; era Addio del passato, che fu scritto sulla tavola del ciak il primo giorno; era  l’inizio dell’aria più struggente di tutta la Traviata, quando Violetta rivede la sua  vita piena di piaceri mondani, ma soprattutto l’intima e perduta felicità dell’improvviso, ricambiato, impossibile amore di Alfredo, mentre è travolta da un atroce rimpianto per il passato, esasperato dalla certezza della sua spietata malattia.

Le riprese iniziarono puntuali il 2 dicembre 2001, agli sgoccioli del centenario verdiano. L’organizzazione curata dal Teatro e dallo staff di giovani collaboratrici era stata curata nei minimi particolari. Tutto funzionava a meraviglia, quando quattro giorni dopo l’inizio della lavorazione l’improvvisa rinuncia del baritono Leo Nucci e la sopraggiunta indisponibilità di una importante location misero in forse addirittura la continuazione delle riprese, ma, abituati ormai alla terribilità del Teatro e del Cinema, in una giornata si trovarono pur faticosamente  tutte le soluzioni.

In quei quattordici giorni di cinema le interviste a esperti, cantanti e personaggi in  genere coinvolti sul set  occupavano una parte importante per il regista, perché gli servivano come strumento di conoscenza diretta degli aspetti del canto e della musica a Piacenza e della tradizione verdiana e perché avrebbero potuto entrare anche nel prodotto finale. Così fu, perché dalle interviste inserite sono usciti momenti appassionati, inediti per capire la tradizione lirica e i caratteri  peculiari di Piacenza.

Giorno per giorno, senza tempi morti e sempre con una proficua armonia nell’operare, il film-documentario terminò concentrandosi in 22 ore di girato, un fiume di immagini […].

 

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