Compendio Storico di Piacenza

Copertina vol. 1

IL DOCUMENTO

Il Compendio Storico manoscritto in tre volumi ben conservati, diligentemente compilato in quindici anni dal sacerdote Giulio Gandini tra il 1768 e il 1783, è finora rimasto inedito e forse è stato letto da pochi solo per prelevare qualche curiosità; esso passò nelle mani del di lui nipote Luigi Gandini, canonico della Cattedrale di Piacenza, che lo donò a mons. Vincenzo Benedetto Bissi (1771-1844), canonico regolare e prevosto della Cattedrale, alla fine del Settecento, per poi giungere definitivamente nella prestigiosa raccolta del conte Bernardo, devoluta per legato alla Biblioteca Comunale (1877). Dunque il Compendio, suddiviso in tre parti,  è  preziosa quanto rara fonte di notizie sulle vicende storiche piacentine, si trova alla Biblioteca Comunale Passerini-Landi di Piacenza ed è catalogato quale Manoscritto Pallastrelli 162 nel ricchissimo Fondo Antico (che peraltro comprende due gioielli di valore incalcolabile  quali la prima trascrizione della Commedia di Dante del 1336 e il Salterio della regina  Angilberga datato  827).

La presente edizione anastatica, favorita dal sincero e pregiato interesse dell’Editore piacentino Palallelo45, è stata realizzata proprio perchè la forma calligrafica è molto curata e leggibile sia nel corsivo di ogni pagina sia nei capilettera e negli elenchi in lettere maiuscole; è comunque una ricchissima fonte di notizie e si fa apprezzare anche nel contenuto come cronaca, scritta con la massima diligenza da un colto uomo di chiesa del ‘700, riguardante “Le Gesta dei Serenissimi Duchi Farnesi, de’ quali per mio piacere mi sono accinto di compilarne la serie”, per “continuare queste memorie” sotto la ducea dei Borbone, come afferma l’Autore nelle sue tre prefazioni. Sembra proprio che egli abbia destinato la sua grande e piacevole fatica alla posterità, con la pertinacia quotidiana di uno che vuole tenere viva la realtà che lo circonda; e la scrittura è autografa fino a quando all'anno 1777 nella Terza Parte Giulio Gandini annuncia l'intervento di una mano diversa e imprecisata: “mi servo di altra mano, poiché il polso assai indebolito più non mi regge a scrivere con la solita franchezza, e velocità” (III Parte, pagina 136). Nella Prefazione alla Terza Parte iniziata nel 1772 dichiara con una certa amarezza dovuta ad un greve giudizio morale: “Le strepitose  vicende seguite in Europa pel corso di quattro, e più lustri hanno somministrato materia copiosa a compire la seconda Parte.  Or mi accingo a cominciarne la Terza Parte dall’anno 1772” , con il preambolo che “questa città in paragone de’ tempi andati, quanto si è resa più bella nel materiale del suo fabbricato; altrettanto all’opposto ella è deteriorata per non dir sfigurata nel sostanziale de’ suoi pregi, nelle belle arti, nei costumi e nella religiosità de’ passati tempi.”

 

GLI INDICI TEMATICI

Tre sono le Parti (da Paolo III Farnese al 1731, da Carlo di Borbone al 1771; dal secondo Ferdinando al 1783), tre sono le prefazioni dell’Autore e tre sono anche gli Indici tematici finali, che rivelano i nuclei di notizie attorno a cui ruota il Compendio. Negli Indici le intitolazioni sono dedicate ai personaggi principali, come i duchi Farnese e Borbone e le duchesse sotto il nome del casato, i Vescovi di Piacenza, l’Alberoni, Gaufrido,  Du Tillot, altri esponenti della nobiltà piacentina che ricoprono cariche pubbliche o hanno incarichi ducali;  sotto ogni nome si danno dettagliati  riferimenti sugli eventi e sulle azioni compiute dai singoli con l’indicazione delle pagine, apparato informativo tuttora molto utile per approfondimenti e verifiche storiche e per la selezione effettuata dall’Autore, che riflette i suoi sempre netti giudizi critici, poiché egli non è uno spettatore passivo; gli Indici sono una chiave di accesso al corposo Compendio. Naturalmente i duchi Farnese e Borbone hanno il rilievo maggiore e di ognuno si  ha sempre un ritratto finale basato su un giudizio storico-morale sempre positivo, perfino per Odoardo, il velleitario e il dilapidatore; il matrimonio  di Elisabetta Farnese, ultima del casato, è raccontato con compiaciuta dignità  (I, 290). Ovviamente al governo del duca  Ferdinando a lui contemporaneo  dedica gran parte  del Compendio, cioè dalla seconda metà della seconda Parte (II, 419)  a tutta la terza. Sull’Alberoni riporta molte notizie, alcune inedite, quali la concessione di un “appartamento nobilmente mobiliato nel Palagio di S. Lorenzo dal Duca assegnatoli per ricevere le visite  degli Ufiziali, da’ quali era molto rispettato per essere il confidente, e l’arbitro de’ voleri del lor supremo Comandante  Duca di Vandomo.” Singolare  l’annotazione sull’astuta autodifesa del card. Alberoni per la sua incolumità con la consumazione di uova fresche “per dubbio di veleno  facile in Francia a maneggiarsi” (I, 275; 304).

Sono poi rubricati soggetti dediti alla cosa pubblica come la  Comunità di Piacenza, la voce sempre  più declinata perché se ne descrivono le prese di posizione e gli atti di rilevanza per la vita sociopolitica; le disposizioni di governo vanno sotto il nome di Decreto, Grida (talvolta denominata “rigorosa” o “fulminante” perché immediatamente ingiuntiva, benché subito raggirata) o di Annona-Abbondanza, con i loro dispositivi; il raggiro delle disposizioni di divieto di esportazione dei grani non era infrequente (III, 34-35, 52).  In effetti, rispetto a quelli di Parma, erano sempre più onerosi  i pagamenti della Comunità di Piacenza, dove “lasciandosi mettere il Governatore  paura dalla Nobiltà, e dagli Officiali che lo circondano, facendoli vedere lucciole per lanterne, la causa de’ poveri va male” (II, 521; III, 60).

Il Collegio dei Mercanti compare spesso come soggetto di sostegno, anticipatore di elevate somme di denaro,  nelle disgrazie per carestie o negli inconvenienti per donativi pubblici alla famiglia ducale.  Altre voci riguardano l’ambito ecclesiastico, dove il ruolo principale è ricoperto dai Canonici della Cattedrale, seguiti sempre da quelli di S. Antonino e dai Regolari (lateranensi, agostiniani e altri): si possono ritrovare anche i Conventuali in genere e Conservatori vari (Putte Preservate, Convertite). In ambito ecclesiastico Gandini è molto informato e si sofferma a lungo su questioni, contumelie e competizioni insorgenti tra le diverse appartenenze clericali (I, 141-142 a es.). Gandini è anche addentro agli affari pontifici emergenti nel conclave da cui uscì eletto Pio VI, individuando il partito dei re e il partito degli zelanti (III, 98-99).

Un altro blocco di argomenti rubricati,  riguardanti i disastri e le calamità naturali con l’indicazione dei fenomeni atmosferici o delle inondazioni, si ritrova in varie versioni: Po, Intemperie e stagioni irregolari, inverno, primavera, autunno, con tutte le loro varianti prolungate: siccità, eccesso di piogge e alluvioni, gelo, nebbia e neve fuori stagione; è una rassegna di straordinario interesse, dove i contrasti si susseguono di anno in anno: troppa pioggia e alluvioni seguite da periodi lunghi di siccità totale, che rovinavano ogni volta i raccolti, con conseguenze micidiali sugli strati più deboli della popolazione. Nel giugno del 1773 ad esempio si succedettero pioggia, grandine, venti freddi e turbini (III, 48). Suggestive sono le descrizioni del Po completamente asciutto e attraversato a piedi oppure ghiacciato e transitato anche con carri (I, 280); particolareggiato è sempre il riporto delle alluvioni, che distruggevano raccolti e case e impietoso è il giudizio di Gandini sull’incapacità dei tecnici preposti a prevenire le esondazioni con la costruzione o la riparazione dei cosiddetti pennelli o la posa delle migliaia di  prismi, barriere prefabbricate in calce, sabbia  e ghiaia e lasciate a indurirsi per anni nella terra (III, 105-106). Tra le frequenti citazioni riguardanti il Po sono da segnalare il magnifico ponte del 1746 con un fortino sulla sponda sinistra e il progetto con illustrazione grafica per il  taglio del meandro esistente tra il pennello e la foce del Trebbia (II, 360; III 144).  Per esempio “la straordinaria escrescenza del nostro Po cagionata dalle dirottissime piogge, ed incessanti (…) aveva fatto un danno immenso di Case diroccate di Uomini, e Bestiame  annegati, e morti di fame per non potersi soccorrere, essendo stati coperti  i seminati, e i campi di sterile sabbia.”

Sempre collegati alle calamità sono i provvedimenti contestuali e tempestivi  dell’Annona, la magistratura che doveva provvedere ad garantire la sufficienza dei beni alimentari, prima di tutto del grano e della melica (intendendo per melica saggina o sorgo, non il mais, massimamente diffusosi come alimento base solo nel sec. XIX), le cui scorte venivano ogni anno reintegrate per compensare le scarsità previste e ricorrenti e per impedire prezzi iperbolici. Non sfuggono però a Gandini le  truffe e le frodi, che nota introdursi nei provvedimenti annonari anche con il concorso di possidenti e nobili, che lucravano nei trasferimenti delle decine di migliaia di stari di cereali oppure non immettevano sul mercato le loro sovrapproduzioni. Era consueto che durante i periodi interminabili di pioggia o di siccità si tenessero frequentatissimi tridui di preghiere e di rogazioni nella chiesa di S. Antonino e si osservassero gli inviti del vescovo rivolti a tutta la popolazione a fare penitenza per ottenere il perdono divino dei troppi peccati.

Oltre ai disastri provocati da mutamenti climatici, sono riportati nei dettagli i massacri delle malattie epidemiche, sull’uomo ma anche sugli animali domestici,  sotto i nomi di Contaggio, Epidemia, Penuria, Carestia; di drammatica intensità è la descrizione della famosa peste del 1630, cui si rinvia per la crudezza e la spietatezza delle immagini, che potrebbero gareggiare con la celeberrima pagina manzoniana. (I, 180-184, 284, II, )

 

LE RIFORME ILLUMUNATE E ADOMBRATE

Un argomento pressante che si trascina nella seconda e nella  terza Parte è quello delle riforme sotto il Du Tillot, il quale manda in esecuzione  la Prammatica delle Mani Morte, cioè la soppressione di conventi con minime presenze e del Santo Uffizio (l’Inquisizione presso i Domenicani), l’obbligatorietà  dello stato attivo e passivo annuale dei Luoghi Pii e soprattutto la cacciata dei  Gesuiti (III, 232) con la conseguente requisizione del loro immenso patrimonio stimato in oltre due milioni di lire, più di un quarto delle entrare ducali; ma anche il patrimonio mobile fu disperso: molti capi di argenteria furono spediti  a Parma  “ad uso della Real Cappella di Colorno, compresa una pisside d’oro di once 30”. (III, 129)

Gandini se la prende con il primo ministro ma anche con i sovrani europei che cacciarono i Gesuiti, nonché con il papa Clemente XIV, che abolì la Compagnia di Gesù e della cui agonia descrive icasticamente le condizioni fisiche, attribuendone la causa alla somministrazione di veleno per meritata vendetta.  Del Du Tillot, cui dedica nell’Indice ben tre pagine  che sembrano una requisitoria,  critica anche gli sperperi nella vita di corte, la demolizione del palazzo ducale a Parma (II, 435) fortunatamente non sostituito da una nuova gigantesca  costruzione (per cui secondo il Gandini non sarebbe bastata  la miniera del ferro di Ferriere trasformata in miniera oro), l’immissione di numerose manifatture  alla francese, compresa quella del panno arbaso (orbace), che decaddero ben presto (III, 46), e infine l’adozione della Ferma Generale, cioè la concessione della riscossione delle tasse e dei dazi a ufficiali (francesi) senza scrupoli, che spadroneggiavano soprattutto verso la povera gente, che si vedeva sequestrare immediatamente  i pochi beni per insolvenza (III,  30-31). Tuttavia egli non riesce a capire che la tassazione dei beni ecclesiastici, peraltro concordata direttamente dal duca Ferdinando con l’autorità pontificia dopo essersi smarcato da Madrid e Parigi,  era diventata inevitabile (poiché “l’erario del Principe era esausto”) e che occorreva  eliminare  il  secolare privilegio ecclesiastico dell’esenzione dalle tasse sulle eredità e  sulla immensa proprietà di due terzi dei terreni del ducato, 265.000 pertiche (II, 410).  In effetti il compartito, cioè la descrizione catastale delle proprietà, e la colletta, cioè la relativa tassazione, negli anni Ottanta anticipavano una nuova era;  forse Gandini si era sentito sempre molto garantito nell’antico regime e non coglieva il segno dei tempi. Tuttavia il duca Ferdinando, convinto sostenitore della restaurazione dopo l’allontanamento del Du Tillot nel 1772, attuò progressivamente la restituzione dei beni confiscati a diversi ordini monastici (Serviti, Somaschi, Barnabiti, la Confraternita della SS.ma Trinità e altri ancora) e il loro reinsediamento in larga deroga alla Prammatica” (III, 167).

Come il Du Tillot egli condanna senza appello sia il Gaufrido, il francese plenipotenziario che rese rovinosa la guerra di Castro e determinò lo scontro tra il duca Ranuccio II e il papa, sia l’Ingegnere  Monsù de Origliac, “nulla intendente di militare Architettura”, cui fu affidato un progetto di difesa lungo il Po, “onde seppe fortificar  meglio  la sua borsa coll’oro del Farnese, che la Città co’ terrapieni” (I, 270). Anche durante l’alleanza stretta dal duca Odoardo i francesi, come  al solito,  si distinsero per fare i propri interessi, rimanendo inoperosi e  indifferenti alle richieste di intervento, anche quando la città fu presa d’assalto dagli imperiali e  la Cittadella subì 235 colpi di cannone (I, 194-195). Non vengono criticati alcuni viaggiatori francesi che per un mese esposero a Piacenza un piccolo zoo di animali feroci chiusi in gabbie, visibili con il pagamento di “mezzo Paolo” (III, 193-194).

 

MALA TEMPORA CURRUNT

Gandini coglie spesso l’occasione per dimostrare che le cause dei mala tempora, che si ritrova a vivere, provengono proprio dal malcostume francese, che ha corrotto uno stato sano e di rispettabile tradizione come quello piacentino: pungente è l’ironia del sonetto sulle “inique gesta del prepotente” (II, 637) e dell’ottava in rima baciata (III, 38), in cui descrive le mode e lamenta anche la perdita della religione e della fede. Anche la predicazione periodica e la sana educazione ben strutturata, da sempre affidate entrambe  ai gesuiti, venivano a mancare e la nuova compagine dell’istruzione disegnata dal piemontese padre Paolo Paciaudi, più bibliotecario di corte che preside degli studi, era il riflesso della decadenza generale. In questo senso prendono vigore alcuni aspetti del costume del tempo, che Gandini bacchetta senza timore: uomini con parrucche (perucche), donne non velate nelle chiese secondo le mode inglesi oppure con “cuffie, cuffiotto, cuffione, bonetto o altro qualunque ornamento del capo” (che per fortuna furono tassate) o infine donne che, per “il lusso e l’ambizione”, portano “grandi acconciature del capo donnesco alte come celate militari”, con “mantiglie e mantiglioni e sopra le lunghe code delle vesti, che si tirano dietro”; il fumo che le donne “hanno in capo non è minore della polvere, che alzano per le strade, e del fango, che portano via con la coda. Il lusso, e la boria a’ nostri giorni è giunto all’eccesso in ogni grado, e ordine di persone” (II, 437-438).

Ce n’è però anche per gli uomini: se nell’anno 1715 per igiene sociale tutti gli “gli oziosi,  i vagabondi, e i scioperati abili a portar l’armi, e che per poltroneria  non volevano fare nisun mestiere”  furono arruolati a  forza e sottoposti a tre mesi di addestramento fino a costituire  un reggimento di 1.550 uomini con due battaglioni, Gandini sostiene che, ai suoi giorni sessant’anni dopo,  “non uno ma due Reggimenti solo in Piacenza si potriano arrolare con facilità, se si volessero pigliare tutti gli oziosi, gli osterianti, gli scioperati, i Levantini, gli Piazzaroli, i Birboni, e simil canaglia, de’ quali è piena la città, senza che si pensi a spurgarla di tal feccia di gente, che tutta l’ammorbano.” (I, 297) I francesi “lasciarono all’Italia  una eredità di mode, di massime, e di costuni si perniciosi, che nelle nostre contrade si cominciò a dar bando  ai santi, e cristiani riguardo all’età passata circa il trattar libero tra i due sessi (…) in Parma in spezie, in cui saranno  cinque e più mille accasati” con cittadinanza accordata (I, 278).

Certo non si può sapere se i sacerdoti  Giulio Gandini piacentino e Giuseppe Parini milanese avessero avuto contatto, per fustigare tanto i costumi che li circondavano; io non credo che si siano conosciuti, ma lo spirito critico verso gli eccessi e gli agi della gaudente società settecentesca è forte e sincero in entrambi, nonostane i vent’anni di differenza in età e la lontananza culturale e chilometrica. Tuttavia è comprensibile che  Gandini, che odiava il Du Tillot e le mollezze dell’aristocrazia, si sia in qualche modo informato sul Parini, che aveva già pubblicato, con saluto positivo della critica progressista, già nel 1763  il Mattino e nel 1765  il Mezzogiorno proprio nella vicinissima Milano, che Gandini conosceva per le rigorose  riforme adottate, richiamate  e anche  criticate (III, 208-210). Oltretutto il ministro Du Tillot nel 1766 aveva proposto la cattedra di eloquenza dello Studio universitario di Parma proprio al  Parini, che  non accettò  per una prospettiva di carriera in area lombarda, concretizzatasi negli anni successivi negli incarichi pubblici ottenuti. Per una verifica efficace sulla questione sarebbero da indagare eventuali rapporti tra la sezione piacentina dell’ Accademia dell’Arcadia e quelle lombarde e gli eventuali rapporti  tra Gandini e gli arcadi locali.

 

NOTIZIE SUI MONUMENTI DELLA CITTÀ

Da attento e partecipe cittadino Gandini registra gli avvenimenti storicamente rilevanti, sempre con attenzione ai costi effettivi di ogni intervento, per cui nelle pagine del suo Compendio scorrono notizie importanti e curiose, che vanno a integrare altre compilazioni storiche attraverso altre fonti informative specifiche, oggi non sempre individuabili. Si parte dalla “Nota della spesa per le Statue Equestri 1625”, specificata  nelle voci  con il  conto economico  di 775.040 lire e terminante con uno sconosciuto  esaltante sonetto celebrativo finale del card. Francesco Landi (I, 173-176).  Cita l’apertura del voltone nel palazzo vescovile   per togliere il passaggio interno al Duomo con “ogni sorta di carico sulle spalle, con cicalamenti, e rumore come in pubblica via; ivi fermandosi, e i carichi deponendo per pigliar lena, e riposo” (I, 64, 148).

Riconferma l’allestimento del Teatro Nuovo  nel 1645 “nel gran salone del Palagio del Comune di Piazza con la rappresentazione del Rapimento di Elena alla presenza del duca di Modena” (I, 208) e l’inizio della costruzione del “Teatro della Salina a spese di Pietromartire Bonvino” (I, 102). Nel 1767, essendo il Teatro di Piazza caduto in disuso (“ridotto al nulla”), furono ricavate quattro camere per “alcuni ufizi del pubblico” (II, 451).

Emerge chiara la vicenda della Fiera dei Cambi, che era stata posta inizialmente  presso “il Claustro di S. Maria del Tempio”, che però per la “quantità di mercanti concorrenti alla fiera” era diventato angusto, per cui per ordine del card. Odoardo “si diede principio alla fabbrica di molte Botteghe, e capanne, là ove al di’ d’oggi si trova eretto il Ducal Monistero delle Benedettine, appellato dal volgo il Convento nuovo, e dove pure sorge al presente il Palagio detto di Madama vicino a S. Lorenzo; queste Botteghe furono poi vendute dalla Camera Ducale a’ Mercanti, onde la Fiera delle mercanzie venne aperta le prima volta nell’anno 1627”,  mentre la Fiera dei Cambi fu trasferita “sulla strada Farnese, o sia Stradone di S. Agostino, cominciata li 4. Maggio, che durò 15. giorni” (I, 161). Tredici anni dopo dal duca Odoardo fu costruita “ la fabbrica ove si giuoca alla palla chiamata Racchetta incontro alla Fiera” (I, 198). Infine nel 1685 “al maggior commodo  della Fiera delle Mercanzie, e a maggior decoro di questa Città,  il Duca Ranuccio, quivi fece costruire in cinque mesi  una specie di Emporio, o Serraglio di forma quasi equilatera con vaga simmetria distinto in più strade composte di lunghe fila di botteghe con una capace Dogana a lato” (I, 250).

Una pagina tragica per il patrimonio artistico di Piacenza e del ducato  è quella dell’anno 1736: “Vedendo i Spagnuoli di non potere più sostenere Parma, e Piacenza, preso l’espediente di abbandonar le due Città, e tutta la Lombardia, alla metà di Aprile si diedero ad evacuarle asportandone il rimanente non solo di preziose suppellettili lasciatevi due anni avanti  da D. Carlo, ma fino i chiodi de’ Palagi Farnesi, non senza dolore de’ Sudditi spogliati de’ suoi Principi, e di Tanti ornamenti delle lor Patrie. Tentarono di portar via sino le due superbe Statue Equestri della Città nostra, ma la Comunità, alle cui spese furono inalzate alla memoria di Casa Farnese, e al decoro della Città, fece sentire le sue ragioni, e d’altro non si cercò in questo fatto. (…) Ed eccoci sotto un nuovo Padrone” (II, 346-347).

Del Duomo richiama  “l’antico costume  di far salire, come in cielo, nel giorno del 15. Agosto la Statua di Maria Assunta con certi ordigni, con i quali alzandosi insensibilmente dall’Altar Maggiore, vien condotta su’ la cima della cupola” oppure le occasioni di addobbo sfarzoso con “la cupola illuminata da 48 torcie di due libbre l’una” con la presentazione del nuovo quadro del  Burali da poco beatificato eseguito da Gaetano Callani (I, 74; III,  26).

Su S. Antonino si sofferma per citare diversi interventi, se non ignoti, riconfermati: lo “accomodamento” del coro e dell’Atrio laterale detto Paradiso e abbellimenti esterni (I, 57; III, 118), la posa di “cancelli di ferro posti all’Atrio Paradiso, e così si è impedito quivi il rifuggio di delinquenti, e le notturne combricole  dei birbanti, e malviventi”;  ricorda una galleria sotterranea scavata per motivi di evacuazione per sicurezza, illustrata in un apposito disegno: da quella parte “all’incontro di questo Atrio sotto la strada e  Piazza evvi un sotterraneo, che ha l’ingresso in Casa Marazzani. Per una strada si entrava  in S. Antonino, e per l’altra si passava in Casa Zanardi” (III, 131-133).

Un’altra chiesa molto seguita è quella di S. Agostino per la nuova pavimentazione del santuario e per la straordinaria  festa del santo titolare: “fu sontuosamente apparata la Chiesa tutta di damasco, non mai più veduta a nostri giorni così ornata” (III, 43, 68, 84); per altri lavori esprime anche un giudizio morale:  “Si vide terminato nel novembre 1779 il sontuoso Refettorio de’ Canonici Lateranensi tutto rinnovato nelle sedie, nelle tavole, nell’ingresso, e nel volto messo a stucchi dorati, e fiori coloriti. Il Refettorio è veramente bello, ma spira troppo lusso, e mollezza; la spesa è stata di due milla zecchini” (III, 167).

Della chiesa del Carmine informa: “Fu pur di quest’anno (1695) riedificata la facciata della chiesa del Carmine, come si vede di elegante architettura, e tutta al di dentro abbellita sul gusto, e disegno moderno riedificata” (I, 264). Richiama anche la pavimentazione di Piazza Cavalli, criticando il progetto frutto di capriccio degli Edili promotori (III, 214).

 

PIACENZA PERENNE CAMPO DI BATTAGLIA

L’esercito farnesiano aveva sempre avuto una dimensione inadatta a sostenere guerre: la guardia del corpo ducale  di 30 uomini a piedi chiamati Celate o Arcieri, una seconda guardia a cavallo  di 60  Collettoni di nazionalità alemanna con armi da fuoco, 200 Irlandesi come guardia di palazzo (I, 78); poi l’organico crebbe con Ranuccio I, che aveva mire di espansione interna: 45.250 uomini, 640 cavalieri divisi in otto compagnie (I, 108).

Con Odoardo per la guerra di Castro si aggiunsero 6.000 fanti e 3.000 cavalieri, ma gli eserciti invasori contavano molte decine di migliaia di armati, che peraltro bisognava mantenere in terra piacentina. Con amarezza e disgusto Gandini rievoca la terribile situazione nel 1691: “il gravosissimo incomodo, e il peso insopportabile di quattro milla Cavalli tra il Parmegiano, e il Piacentino” con  soldati accompagnati da un “copioso numero di saccomanni, donne, e ragazzi, genti tutte che formavano una truppa di canaglia quasi innumerabile. Non furono si poche le collette, e le taglie imposte dal Duca per saziare l’ingordigia di gente  incontentabile, e bestiale” (I, 254).

Dopo le cruente vicende belliche  degli anni Trenta e Quaranta del sec.  XVII, con devastazioni e requisizioni cruente di beni e raccolti attuate dalle truppe straniere attraversanti il territorio piacentino (3.000 fanti tedeschi, 1.5000 cavalli, 24 compagnie di truppe napoletane solo nel 1624), perfino con il taglio naso e delle orecchie ai contadini  per terrorizzare la popolazione (I, 167, 195-197), e dopo gli onerosissimi costi subiti per pagare l’allontanamento delle stesse truppe dallo stato piacentino nei primi anni Novanta, Gandini racconta ciò che vide con i suoi occhi nel 1746 dopo “il gran giorno 16. di Giugno”, la cui sanguinosissima battaglia egli descrive con dovizia di particolari: “Teatro di miserie  era la Città nostra; le maggiori Chiese erano convertite  in magazzini, e in Spedali; gambe e braccia recise cadevano per le strade dai Carri nel portarsi a  sepellire i cadaveri. Gran caldo, gran mosche, gran fetore  per le gran bestie da soma, che tutto lo Stradone, e le vie più larghe della Città occupavano. Gran scarsezza di legna, e di pane si pativa; talchè più pezze e doppie di Spagna correvano, che pane.” Appena dopo 25 mila gallispani cominciarono in Val Tidone a fare sfilare l’artiglieria con “quattro mila muli d’equipaggio, e mille carri tra bagagli, e viveri.” L’ingente  bottino di guerra lasciato dai medesimi  spagnoli dopo la sconfitta  è raccontato  nelle pagine successive (II, 363-369).

L’unico caso non letale per la popolazione fu quando il duca Francesco nel 1715 inviò un reggimento di 2.000 fanti, pur arruolati in loco,  in aiuto a Venezia per la guerra  contro i turchi, che poi furono sonoramente battuti in Ungheria e a Corfù; questa mossa ricompensò il duca con l’attribuzione  pontificia del titolo di Gran Maestro dei Cavalieri di San Giorgio, “chiamato l’Ordine Costantiniano” (I, 294-5).

 

SPIGOLATURE

Nel Compendio Gandini serpeggiano molte curiosità, che qui in piccola parte si suggeriscono per dare qualche tocco pittoresco a questo commento iniziale. Per incontrare il pontefice Clemente VIII a Ferrara nel maggio 1598, il duca  Ranuccio I ebbe un seguito e una scorta alimentare incredibile: “110 tra Feudatari, e cavalieri, 700 tra Paggi, e staffieri, 100 Fucilieri e 100 Carabinieri a cavallo, otto Trombetti, e gran copia di altri camarieri, ufiziali, e servi di ogni condizione. La provisione poi consisteva in Sacchi di farina 800. Vino di più sorti Botti 160. Vitelli 220. Manzi grassi 50. Castrati150. Capretti230. Conigli, e Lepri 100. Cinghiali 10, Capponi Para 600. Pollastri e galline Para 850. Oglio Pesi 200. Colombi Para n. 1.050. Quaglie Para 600. Fagiani Para 20. Galli Indiani  n. Para 600. Oche grasse Para 150. Anitre, e polli Para 160. Barche di legna 55. Carbone sacchi 40” (I, 109-110). Per un Viaggio a Torino  Ranuccio II ebbe al seguito  “oltre 300. Persone, che erano il fiore della Nobiltà de’ suoi Stati”  (I, 234). Meno pretenzioso un viaggio di otto giorni del duca Ferdinando, che, dopo un breve soggiorno alla villa di Caramello presso il marchese Paveri Fontana,  era ripartito da Colorno “sul bucentoro per la lunga del Po” anche con pernottamento sull’acqua (III, 120-121). Ancora più innocuo  il viaggio interno dell’Arciduchessa Sovrana Maria Amalia che nel 1776  “si portò a Ferriere per vedere a purgare, e lavorare  il ferro” e poi giunge in incognito “in Vallera di S. Antonio a vedere i suoi cavalli di razza in n. di 100, mandati un mese fa in questi pascoli” (III, 134). Uno straordinario evento mondano fu l’occasione della visita dei duchi a Piacenza, “col seguito della nobiltà, che trovavasi schierata nelle carrozze, il numero delle quali oltrepassò alle 120.”

Uno spazio particolare viene dato alla notizia della morte di uno già apparentemente morto: un soldato piemontese, “doppo essere stato quarantasei giorni senza prender ne cibo, ne bevanda morì restatale la sola pelle e l’ossa, onde con poca fatica si formò il di lui scheletro” (I, 285).

 

QUADRETTI POPOLARI E CRONACA NERA

Certe pagine raccontano, come oggi farebbe un quotidiano locale a caccia di note cromatiche forti, fatti piccoli e piccolissimi, che però sono spesso il frutto di riporti di cronaca procuratisi dallo stesso don Giulio Gandini  tramite i suoi agganci ecclesiastici e non,  letti sul tavolo della sua scrivania,  oppure sono la sua testimonianza diretta come osservatore.

“Un improvviso comparire di  una gran moltitudine di insetti, o sia di grossi parpaglioni, parte con l’ali rosse, e parte cenericce aveva causato malori straordinari”, provocò la morte di 2.500 persone in un anno; altre 2.000 persone morirono di “infreddatura epidemica”  nel 1730.  Di biblica memoria l’invasione di nubi di cavallette che distrussero i raccolti in una settimana, portandosi a ovest (I, 164;  322).

La  coltura dei gelsi (“mori”, moroni), collegata alla secolare consuetudine della filatura della seta, incrementata  a Piacenza in parte con Ranuccio II con l’impianto del Filatoio Grande in via Benedettine, fu estesa  nel 1752 con l’obbligo di piantare  3.000 gelsi, nello specifico 25 gelsi ogni 100 pertiche (II, 384)  e fu confermata nel periodo di Maria Luigia nel sec. XIX;  essa ha caratterizzato  il paesaggio piacentino, che ancora oggi da qualche parte più conservativa rimane nitida nei contorni di alcuni poderi.

La fame era sempre a ogni angolo delle strade e a ogni incrocio nelle campagne: “Nella circostanza della corrente penuria noi siamo assediati  per dir così da truppe di contadini, che non avendo pane da mangiare uomini, donne, e ragazzi  van questuando per la città con lamenti, e con pianti.” E ancora “i poveri villani sono la più parte in rovina, avendo dovuto vendere bestiami, e supellettili di casa per comperarsi il pane” (III, 228, 240).

Non si può non riprendere il caso del calzolaio miscredente e impenitente della parrocchia di S. Brigida, che “non volle confessarsi, ne sentir parlar d’anima, di eternità, ne di Dio, ne del Croccefisso, duro, e inflessibile a tutte le più fervide esortazioni, e sin dal nostro Monsig.r Vescovo, che trè volte in un giorno venne a visitarlo; rispondeva  con parole, indecenti ed ingiuriose ai Religiosi; pertanto fu giudicato incapace di sepoltura ecclesiastica, onde venne sepellito come un cane”(III, 86-87).

I fattacci di cronaca nera, anche se meno frequenti delle perturbazioni metereologiche,  compaiono costantemente per il clamore suscitato al momento e si concludono  quasi sempre con l’esecuzione della condanna dei rei. Qui si danno rapidi cenni soltanto per ricreare l’atmosfera fosca di quei secoli.

Nel 1592, tanto per cominciare i roghi di donne vive per accuse di stregoneria non erano una eccezione: “Dal Tribunale dell’Inquisizione furono condannate ad essere abbruciate vive 9. Donne per enormi delitti d’incanti, e di stregarie”, condanne eseguite l’11 di agosto presso S. Giovanni; “altre 7. furono acremente frustate  per la città per delitti simili, ma meno gravi” (I, 102).

Nel 1625 “per riparare i frequenti omicidi anche tra persone Nobili, per via delle armi da fuoco, le pistole da saccoccia” fu proibito il porto d’armi; ancora nel 1667 “gli assassinamenti” furono più di dieci, molti i “ladroneccj”, che rimanevano impuniti (I, 166, 241). Quando però i colpevoli erano  individuati, erano giustiziati, come avvenne per un certo “Giuseppe Bignami appellato Boccalone del Luogo di Settima, Ladro insigne, consuetudinario, e che teneva corrispondenza con ladri di altri paesi”; più volte incarcerato e “più volte purgatosi a forza di denaro”, fu catturato dopo un furto sacrilego in una sacrestia e dopo tre anni di carcere  “ricevette il meritato castigo” finale (II, 400). Nel 1752, il 6 maggio furono fatti morire sei famosi ladri, e assassini di strada, il capo fù fatto in quarti: gli altri sei furono impiccati; erano ladri e stupratori. Due anni dopo “quattro assassini di strada, e un Mandatario furono giustiziati colla morte di forca sulla Piazza di Piacenza”; nel giro di cinque anni ne  furono impiccati un’altra ventina e “si nettò il Paese di Ladri” (II, 384, 390-391). Un prete, ladro sacrilego per aver rubato in chiesa,  una volta scoperto dagli sbirri, “sbottonatasi la camicetta, da se medesimo con un pugnale si era passato il cuore” (II, 470). Nel 1772 gli omicidi assommavano a una sessantina (III, 28).

Anche tra l’aristocrazia c’erano assassini: ad esempio, considerata la “sconsigliata gioventù, vaga di portar armi  proibite”,  il delitto Tommaso Arcelli  “ucciso da colpo di  pistola da un cavaliere di Malta dei Magenta milanese”, richiese l’intervento del card. Odoardo Farnese (I, 167); ma anche un conte, con nome depennato dal Gandini nella pagina del caso,  assassinò una donna  “con due ferite mortali nel capo, ed una nella gola”, poiché era stato derubato di argenteria e denaro per un valore di mille scudi, sottratti però da un nipote del conte, che se li nascose “nel pagliarizzo del letto” e che comunque fu fatto espatriare “con somma segretezza, e celerità”: ah, il suo “vizio del giuoco!” (III,  23).  Per effetto speculare  una contessa bresciana, che  aveva ucciso con un colpo di pistola il fratello canonico arciprete della Cattedrale perché continuamente redarguita “ma senza frutto” per il di lei rapporto stretto con un di lui cameriere, alla fine cacciato di casa, si era rifugiata a Parma e qui fu arrestata; il seguito non è noto (III, 29).

Strana e inconsueta l’evasione di 16 carcerati, che si rifugiarono nelle chiese della città, dove pretendevano asilo; nonostante la fermezza del vescovo, che non venne considerata,  tutti furono riportati in carcere” (III, 174-175).

 

UNA FONTE INDISPENSABILE PER LA STORIA

Per concludere la presentazione di questa nuova fonte documentaria, vanno segnalati per la loro utilità anche le cronologie dei duchi e dei vescovi, gli elenchi dei conventi e dei luoghi religiosi  come anche i riquadri sulla  popolazione della città e del territorio (II, 295-296), tabelle di dati di valore statistico  distribuite nelle tre parti, che il lettore andrà piacevolmente a rintracciare.

Giulio Gandini nel finale  del suo Compendio dà largo spazio al ritrovamento del corpo intatto di San Francesco Saverio nella terra  di Goa, sulla costa occidentale dell’India, dove era stato sepolto 220 prima dai suoi gesuiti missionari, e conclude in modo coerente con la sua posizione clericale: dopo aver dichiarato “Chiudo le memorie di quest’anno 1783, e dell’ultimo in cui registro le cose accadute della Patria, e qui registro una generosa risoluzione fatta da due nostri giovani piacentini” della famiglia  Angiolini. Qui Gandini esalta il loro esempio, perché si portarono “nella Russia Bianca per vestire di nuovo l’abito della Compagnia di Gesù” (III, 247-248).

Del buon don Giulio Gandini, dal cognome abbastanza diffuso nel piacentino, non sappiamo quasi nulla: nel 1720 si trovava a ricevere la benedizione papale  tramite il vescovo Barni “sulla Piazza della Cittadella: Il Palco era situato a Lato della Rachetta in faccia alla Fenestre del Palagio Ducale” (I, 305). Nel 1729 dimorava ventenne  a Parma, dove forse studiava,  e da febbraio a marzo a Parma “si fece sentire ogni giorno il terremoto or più gagliardo, or più mite. Io che scrivo ne provai lo spavento come di cosa mai più sentita a miei giorni” (I, 321). Nel 1748 fu partecipe in S. Maria di Campagna a un evento quasi miracoloso: “mentre i musici cantavano, scoppiò in chiesa un fulmine, che entrato per la cupola, girò la Cantoria de’ Suonatori, e passato dall’altra de’ Musici senza ofender nisuno, sortendo dalla parte dell’Organo, andò a terminare nella Porta di S. Antonio”; Gandini come tutti fuggì ferendosi al piede, ma ritornò poi per la conclusione della funzione  a “Chiesa quasi vuota” (II, 376-377).  Nel 1768 iniziò a scrivere il Compendio Storico, che ora esce alle stampe ad atteso onore della sua Patria. Per Luigi Mensi (p. 196)  fu “canonico e cronista; la sua cronaca accuratamente manoscritta rilegata in tre volumi e intercalati  di ritratti di molti personaggi si conserva  nella nostra civica biblioteca fra i manoscritti del legato Pallastrelli”, in cui entrò per merito il nipote di Giulio,  Luigi Gandini, dottore in legge, canonico decano del Duomo  e vicepresidente della commissione  amministrativa  della biblioteca civica piacentina alla quale lasciò  circa  800 volumi sul finire del secolo XVIII”.

Questo è tutto. Similmente alla vicenda del Diario di Orazio Bevilacqua, barbiere di Ranuccio II (1665-1694), questa fonte inedita, pubblicata dallo stesso Editore, vuole essere solo uno strumento documentario utile alla fruizione e alla formazione storico-culturale sulla storia piacentina, indirizzato anche ai giovani che potranno lanciarlo in internet;  ma vuole essere anche un’indicazione metodologica per la ricerca in genere: la pubblicazione delle fonti inedite ha sempre un significato innovativo e costruttivo e stimola l’ampliamento della conoscenza.

Stefano Pronti

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